Da Sankt Pauli a San Siro

Risvegliarsi nelle miserie degli stadi italiani dopo aver conosciuto il modello St. Pauli
02.11.2022 20:00 di  Nicola Consalvi   vedi letture
Da Sankt Pauli a San Siro
© foto di FCSP

Dopo il recente viaggio a Sankt Pauli, ero cosciente che il ritorno in Italia poteva coincidere con brutti risvegli. Il Millerntor-Stadion del derby di Amburgo era troppo pieno di segnali positivi sul come si dovrebbe vivere una partita di calcio. Da sogno anche la maniera con cui quello stadio si fonde con lo stile di vita della società che lo circonda e lo riproduce; un vaso comunicante per veicolare messaggi positivi, di rispetto ed accoglienza.

Quello che è successo a Milano allo Stadio San Siro la sera di sabato 29 ottobre mi ha riportato bruscamente alla triste conferma: Sankt Pauli e l’Italia sono lontanissimi. La curva interista, a seguito dell’esecuzione di Vittorio Boiocchi, storico esponente del cosiddetto “tifo organizzato”, ha deciso che servisse un messaggio immediato di “solidarietà”. Fatto sta che nel bel mezzo di Inter – Sampdoria, i gentili organizzatori del tifo nerazzurro hanno costretto un gran bel pezzo di curva nord ad abbandonare lo stadio. Con le buone e, per chi non capiva il gesto, anche con le cattive.

La chiamano “intimidazione ambientale”, ma è il solito caro vecchio controllo del territorio che il bel paese ha fatto diventare eccellenza assoluta, grazie alle sue molteplici forme di malavita organizzata sparse su tutto il territorio.

Solo che allo stadio tutto diventa meno delinquenziale e più celebrativo, eroico, identitario. Non importa la carriera carceraria del capo ultras di turno, in curva è uno che “è sempre presente”, “ha sempre difeso la squadra, su ogni campo”, “è uno di noi”, “è un difensore della tradizione contro il calcio moderno”. Insomma, il controllo del territorio se l’è conquistato sul campo, se lo merita. E poco importa se il tutto produce territori curvaioli in cui c’è una minoranza organizzata che decide tutto quello che deve o non deve succedere, lasciando al restante ed enorme branco di plebe, spregiativamente definito “tifoso occasionale”, l’obbedienza cieca ed indiscutibile. Si tratti di riconsegnare immediatamente un pallone finito in curva a chi spetta per diritto acquisito, o di cantare o non cantare cori a favore o contro questo o quello, fino appunto all’ordine tassativo di abbandonare lo stadio o di non entrarci proprio. Inutile aggiungere che, laddove non ci sia spontanea adesione al copione scritto di volta in volta dai sacerdoti e dai loro sempre numerosi e zelanti chierichetti, l’intimidazione ambientale è costretta ad usare la deprecabile, ma sempre molto funzionale, violenza.

Purtroppo, per quanto riguarda il calcio italiano siamo alla riscoperta dell’acqua calda. Cose sapute, risapute e discusse centinaia di volte. Con le società calcistiche italiane, vittime e carnefici allo stesso tempo, che tengono il tappo sul pentolone maleodorante finché la cronaca non le costringe ad occuparsene, in qualche maniera.

Quello che invece sarebbe interessante provare a capire è il solito dilemma del bambino e l’acqua sporca. È possibile avere stadi rumorosi, colorati e passionali, senza dover appaltare il servizio alla malavita organizzata? È possibile salvare il mondo ultras (il bambino) senza doversi tenere anche l’acqua sporca? Le vicende seguite allo scoperchiamento del pentolone della curva sud della Juventus ci dicono che purtroppo è tutt’altro che semplice ed immediato costruire alternative. Anni di inazione ed omertà producono disastri culturali, anche allo stadio. L’Allianz Stadium di Torino, dopo l’espulsione a suon di DASPO e DIGOS di tutti i simboli principali dei gruppi ultras, è un catino semi-muto (ed ultimamente anche semivuoto, ma qui pesano altre dinamiche gestionali societarie).

Gli stadi tedeschi, coi loro numeri, le loro strutture e soprattutto le loro rumorose e colorate tifoserie (peraltro non segregate solo nelle curve come nel caso di Millerntor, dove la tribuna di fronte a quella principale, la Gegengerade, è il vero cuore pulsante) possono indicare una strada. Ma prima ci mettiamo in cammino e prima regaleremo, magari alle future generazioni, un calcio più passionale e meno violento che prende come modello la base associativa partecipativa tedesca. Forse vale la pena provarci.