Roma, sport popolare in piazza (e le Brigate Garibaldi aderiscono)

10.11.2020 22:48 di  Redazione StPauli   vedi letture
Roma, sport popolare in piazza (e le Brigate Garibaldi aderiscono)

Le Brigate Garibaldi St. Pauli aderiscono e supportano l'iniziativa di giovedì prossimo 12 novembre 2020 prevista a Roma per le 15 in piazza del Campidoglio che mira a riunire tutte le realtà italiane dello sport popolare. Si tratta infatti di un approccio dal basso, quello dello sport popolare, che si basa proprio sul modello Sankt Pauli che da sempre abbiamo supportato. 

Sarà importante colorare la piazza con le bandiere di tutte le associazioni di base per dimostrare le finalità integrative ed inclusive dello sport. Di seguito pubblichiamo il testo dell'appello degli organizzatori.

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Lo sport che ci interessa è “lo sport per tutti”, quello praticato nei quartieri, organizzato dalle associazioni di base, sostenuto dalle società dilettantistiche, orientato da valori inclusivi e inevitabilmente, da qualche tempo, in crescente difficoltà nei confronti della crisi economica e delle fredde regole del mercato. Questo sport va considerato come una risorsa collettiva da tutelare, diffondere e rivendicare. 
Un “bene comune”, un diritto riconosciuto dalla carta costituzionale, un diritto della persona, un indicatore del welfare e del benessere sociale. 
“Lo sport di tutti e per tutti” che ci interessa è quello che recupera pezzi di territorio, li mette in comune, contrasta processi di privatizzazioni più o meno temperate dalle finalità sociali, asseconda ogni politica di difesa ambientale e si oppone, senza se senza ma a chi in nome dello sport fa speculazione e ha come unico obiettivo quello di cementificare e realizzare profitti. 
"Lo sport di tutti e per tutti" come strumento di prevenzione sanitaria, una risposta possibile al degrado delle periferie, che s’integra con le strategie di “riduzione del danno” e fa da contrasto concreto al disagio giovanile e alla violenza di genere.
Risulta essenziale, perciò, favorire la massima diffusione di tali attività a tutti i cittadini, cercando nel contempo di curarne la qualità. A scuola, in palestra, in ogni spazio dove si fa movimento, si devono offrire le condizioni migliori per vivere lo sport senza ostacoli culturali e architettonici, per viverlo come esperienza formativa esportabile da un contesto ad un altro, dove la comunicazione non verbale e il dialogo fra i corpi assumono un ruolo fondamentale. Condizioni che possono sussistere se si abbandona una visione riduttiva dello sport, finalizzata più all'esclusione che all'inclusione delle persone, attraverso la selezione del più bravo. Chi non è motivato alla competizione, insomma, è fuori dal gioco. 
Siamo lavoratori e lavoratrici sportivi.
Uomini e donne resi invisibili e dichiarati non essenziali da una società che da anni a questa parte incoraggia a fare sport, ma senza mai aver dato il giusto riconoscimento a chi lavora in questo comparto.
Da anni viviamo in una situazione al limite della decenza, senza contratti di lavoro e senza tutele di alcun tipo.
Questa pandemia ha scoperchiato un vaso di Pandora che tutti noi conoscevamo bene, ma in tanti ignoravano la reale situazione.
Una società giusta, come la intendiamo noi, deve essere una società che ha come compito primario quello di dare una vita dignitosa alle persone, garantendone i diritti primari e tra questi il diritto allo sport.
Da quando è iniziata questa pandemia, questo diritto è stato tolto a milioni di cittadini e noi operatori sportivi ne abbiamo pagato in primis le conseguenze: palestre, piscine e centri sportivi, chiusi dal giorno alla notte e con misure restrittive talmente complicate ed impossibili da seguire, che hanno prodotto la chiusura di tanti centri e di conseguenza la fine per molte Asd o Ssd.
Nei primi mesi della pandemia abbiamo cercato di capire ed abbiamo accettato tutto quello che ci veniva detto perché sapevamo che stavamo affrontando qualcosa di inimmaginabile.
Una situazione che c’è precipitata addosso dal giorno alla notte e che nessuno è stato in grado di gestire.
Oggi, a distanza però di tanti mesi, qualcosa doveva cambiare.
Dovevano essere messe in campo una serie di misure che tutelavano le nostre strutture ed invece c’è stato chiesto l’impossibile.
Siamo stati obbligati a dover sottostare a dei protocolli sportivi rigidissimi e nonostante tutto ci ritroviamo nuovamente con tutti i nostri centri chiusi.
Se pensavano che bastasse un bonus di 600€ per tenerci in silenzio si sono sbagliati di grosso ed oggi non basteranno gli ulteriori 200€ per farci continuare a restare in silenzio.
Oggi abbiamo bisogno di cambiare rotta ed iniziare a batterci per quelli che sono i nostri diritti.
Chiediamo il riconoscimento del ruolo di lavoratori sportivi e non collaboratori, in quanto essendo professionisti dello sport, meritiamo contratti di lavoro adeguati. Purtroppo non abbiamo relativamente a ciò una normativa (legislativa o contrattuale) che ci dia uno spunto chiarificatore per poter disciplinare questi rapporti. La necessità di superare questa mancanza di chiarezza e dunque la pluralità ed atipicità di molti rapporti di lavoro che possono sfociare nel lavoro sommerso o nelle condizioni di precarietà, di cui si palesa la sussistenza, mediante l’introduzione di un contratto collettivo nazionale dei lavoratori dello sport che al momento non esiste. Un contratto collettivo che potrebbe essere pensato dalle parti sociali, dal CONI – Federazioni - Associazioni e Società Sportive e dalle Organizzazioni Sportive, per offrire uno strumento che può cosi definire “un abito” per quelle professionalità tipiche del mondo dello sport. 
Quell’operatore dunque non sarebbe lasciato al caso nell’organizzazione della sua stessa attività, e costretto a lavorare in maniera discontinua tra il rincorrere una palestra ed un’altra. Classificazione ad hoc, retribuzioni minime concertate, orari di lavoro, assistenza previdenziale e contributiva per chi fa dello sport un lavoro vero e proprio e non attività di volontariato nel dopo-lavoro. Un contratto collettivo nazionale cucito ad hoc darebbe la possibilità sia alla società sportiva che al lavoratore di avere una posizione continuativa sia dal punto di vista retributivo che organizzativo. 
A tal proposito pensiamo a quanti giovani potrebbero lavorare nel mondo dello sport se vi fosse un ingresso chiaro e per tutti. Questo sarebbe possibile se, appunto, vi fosse la possibilità di normare questo mondo a partire da un contratto collettivo nazionale per detta specifica categoria produttiva. Per cui se la condizione di precarietà c’è è perché al momento non vi è una regolamentazione chiara in merito che consenta di diversificare, laddove necessario, situazioni apparentemente analoghe. Un contratto collettivo significa anche far emergere delle professionalità che altrimenti rischiano una condizione di dequalificazione e il non riconoscimento del valore che queste hanno. Persone che malgrado appunto l’alta professionalità e le competenze acquisite rischiano di non aver mai nessun inquadramento specifico e dunque nessun riconoscimento anche della loro qualifica e delle loro capacità professionali.

 Chiediamo un sostegno diretto e sgravi fiscali per le Asd e le Ssd sui canoni di affitto e su tutte le utenze, la regolarizzazione delle concessioni a canone sociale e la cancellazione dei pregressi in contenzioso per le realtà sportive di base che promuovono lo sport come strumento di integrazione sociale

 Chiediamo di essere parte in causa per una riforma dello sport vera e propria. Non possiamo accettare di essere lasciati fuori e che siano solo le multinazionali dello sport, che hanno a cuore solo i loro profitti, a decidere la nostra sorte.

 Chiediamo una vera collaborazione con gli enti di promozione sportiva, con le discipline sportive associate e con le federazioni nazionali, per provare ad istituire una cassa di emergenza attraverso l’istituzione di una patrimoniale dal basso che aiuti e sostenga tutte le associazioni o le società sportive.

 Chiediamo che ogni intervento per nuovi impianti debba avere come ispirazione non le necessità dei singoli ma gli interessi di un’intera comunità. D’altra parte la sostenibilità ambientale e sociale di qualsiasi intervento sul territorio è un criterio irrinunciabile per chi lo abita. Lo sport non può sottrarsi a questo principio. Pensare ad esempio di costruire uno stadio (con annessi spazi ristoro e parcheggi) in un’area dove sono già presenti un alto numero di impianti sportivi capaci di soddisfare la richiesta dei cittadini è cosa altamente discutibile perché qualsiasi calata di cemento in un’area del genere contrasta con la filosofia del minimo impatto e rischia di sottrarre spazi alla collettività invece di restituirne. Altro discorso sarebbe invece costruire un impianto in un luogo già edificato mettendolo in concorrenza all’invasione del partito del mattone. In ogni caso su questo, come su altri casi del genere, non possono essere assunte decisioni senza confronto pubblico e scambio di idee capace di coinvolgere non solo gli addetti ai lavori ma la cittadinanza tutta.

 Chiediamo a tutte le atlete e gli atleti professionisti impegnati in questo periodo a mandare avanti “lo sport show business” di dare un contributo economico significativo per sostenere lo sport di base tramite una tassazione simbolica dei loro salari milionari.

È arrivato il momento di invertire la rotta.
Noi siamo pronti.