Tuttostpauli intervista il direttore del Corriere dello Sport Ivan Zazzaroni

02.11.2020 17:44 di  Flavio Villani   vedi letture
Tuttostpauli intervista il direttore del Corriere dello Sport Ivan Zazzaroni
© foto di tuttostpauli

Presentare ai nostri lettori Ivan Zazzaroni è come presentare al marito sua moglie.

Alcuni giorni fa l'abbiamo incontrato nel suo ufficio di direttore del Corriere dello Sport a piazza Indipendenza a Roma e abbiamo chiacchierato dei valori dello sport e del ruolo dello sport nella società italiana.

Qual è il peso dello sport nella società italiana?

Calcolare il peso dello sport nella società non è facile, soprattutto in questo momento in cui viene addirittura messo in discussione lo sport per i più giovani.

In Italia, da una parte c’è lo sport dei risultati, lo sport come business, dall’altra lo sport come attività. In quest’ultima accezione, lo sport ha un peso importante. Per i giovani lo pongo come un diritto, sullo stesso piano di quello allo studio: sono due cose che si integrano per valore educativo e per valore sociale.

Quale influenza hanno i media sportivi nella società?

Negli ultimi anni il ruolo dei media è molto cambiato. L’intervento e l’immanenza dei social networks ha cambiato la funzione dei media tradizionali: adesso intervengono mille voci. Quando avevo dieci anni, la verità di mio padre era la verità assoluta, oggi i ragazzi hanno informazioni diverse da quelle dei genitori. Usano lo smartphone, usano Internet e mettono in discussione la verità dei genitori.

Al Corriere dello Sport ci occupiamo di attività sportiva, ma da alcuni mesi affrontiamo la parte sociale e politica con un’attenzione per un giornale sportivo forse addirittura eccessiva, perché non so se il nostro pubblico sia pronto ad affrontare dei temi così seri.

Ho fatto ventidue anni di giornali e poi sedici da free lance, occupandomi di radio, televisione e web, e poi sono tornato ai giornali. Ho visto il mondo fuori dalle redazioni e sono molto scettico sulla capacità degli italiani di interessarsi a determinate tematiche.

L’ultima volta che ho comprato un giornale per sapere il risultato di una partita risale a molti anni fa. Ora, come dicevi, l’informazione sportiva è tutta già presente e i media del settore devono trovare nuove forme di espressione.

Noi abbiamo l’approfondimento, che è l’unica cosa che ci distingue realmente, oltre a determinate notizie che i social networks non hanno, ma che si prendono. Alle sette del mattino del giorno dopo tutti i nostri contenuti più interessanti sono già riproposti dai siti e dai blog: se da un lato possono diminuire le copie, dall’altro aumentano esponenzialmente i lettori.

È una questione molto italiana, perché all’estero - e io ho lavorato in Inghilterra, in Brasile e in America - il medium tradizionale, pur se portato sul web, ha ancora molto peso ed è molto più tutelato. In Italia no. In Francia hanno tentato di creare una legge sul copyright, ma è fallita quasi subito. Le majors e i grandi networks non te lo permettono, ti escludono dal loro circuito.

È un mondo che sta cambiando e ci sta cambiando addosso. Siamo disorientati, perché non riusciamo a comprenderlo fino in fondo.

Lo sport ha ancora un ruolo nello sviluppo sociale, come aveva qualche anno fa?

No, ma deve averlo, perché è una delle due fasi dell’educazione. È però necessario cambiare culturalmente l’approccio allo sport, che deve essere competizione. La vita ti porta alla competizione. Abbiamo formato ragazzi che non avevano il risultato come obiettivo: nei primi anni giocavano tutti, non c’era competizione, c’era soltanto divertimento. È esattamente l’opposto della vita. Io sono cresciuto con la logica del risultato e della competizione: qualcosa di buono mi ha portato. Nella vita devi combattere e nello sport si impara a combattere secondo le regole, anche se nella vita di tutti i giorni le regole vengono molte volte disattese.

Quali sport hai praticato?

Ho giocato a calcio e a hockey su prato.

Nella mia zona ci fu una specie di reclutamento da parte di un appassionato che prese una ventina di ragazzi del nostro gruppo e li portò ad allenarsi per giocare a hockey su prato come CUS Bologna. Erano gli anni Settanta.

Il mio sport però è il calcio. Ho giocato a buonissimi livelli quando avevo diciotto o diciannove anni e poi, rendendomi conto di non poter ambire al professionismo, ho seguito un altro percorso, quello universitario, e sono diventato giornalista.

In quegli anni l’Amsicora di Cagliari era molto forte.

Sì. Come settore giovanile del CUS Bologna ci abbiamo giocato contro. I fratelli Ghedini, Marano e Bertoncelli – mi pare si chiamasse così – giocavano con me. Loro hanno fatto olimpiadi e nazionali. Su venti ragazzi, quattro hanno fatto una carriera a livello altissimo.

Lo sport di allora era una forma di aggregazione?

C’era più attività a livello di UISP [Unione Italiana Sport per Tutti, ndr], CSI [Centro Sportivo Italiano, ndr] e FIGC e su molti sport, non solo sul calcio. Ad esempio, il mio professore di ginnastica delle medie, Nerio Zanetti, diventò uno dei guru della pallavolo italiana. Fu lui che ci portò a giocare a pallavolo e uno dei nostri, Zaffaroni, arrivò a giocare in Serie A.

Questo imprinting è fondamentale: avere gli istruttori, gli appassionati, avere gente che ti porta in quella direzione. Allora era possibile. Oggi non lo so, sinceramente.

Cosa potremmo fare per cambiare direzione?

Dovremmo trovare persone diverse, un governo molto più deciso, molto più presente, molto più competente, cosa che non abbiamo. Forse perché non lo siamo noi.

In parlamento non si parla di sport perché nessuno lo conosce, nessuno ne conosce il valore. Allo Sport abbiamo un ministro che non l’ha mai praticato. Nelle istituzioni sono pochi quelli che hanno praticato sport a livello federale. Parlano di cose che non conoscono, di valori che non conoscono, per cui è difficile anche confrontarsi con loro. Fanno discorsi populisti, demagogici: lo sport per tutti non vuol dire nulla, se poi non dai indicazioni chiare e non organizzi davvero la pratica sportiva per tutti.